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Affrontare oggi le complesse questioni etiche e bio-etiche di fine vita significa esaminare le diverse modalità con cui si muore nel nostro tempo, modalità profondamente diverse rispetto a quelle di un passato neppure troppo lontano. Con queste parole ha esordito il Prof Tiziano Sguazzero, trattando un tema di grande attualità e delicatezza, nel corso della conviviale del 7 aprile. All’inizio del nuovo millennio la morte e il morire continuano ad essere relegati dietro le quinte della vita sociale. I pazienti non “incontrano” la morte in quanto la fine giunge per molti di loro mentre sono incubati, aerati, sedati, non coscienti e forse neppure più umani. Si sta, al tempo stesso, con sempre maggior forza imponendo la richiesta, da parte dei malati affetti da patologie molto gravi e dolorose e senza ragionevoli speranze di guarigione, di esercitare un reale controllo sul proprio corpo, sulle terapie utilizzate, sulla valutazione di ciò che si ritiene sia preferibile per quel che resta della propria vita. In taluni casi estremi il paziente sente il bisogno di cercare, anche con l’aiuto del proprio medico, una via d’uscita da un’esistenza ritenuta insopportabile. Tale richiesta di <<prendere congedo dalla vita>> richiede di essere valutata non solo sotto i profili giuridico, sociale e religioso, ma anche sotto il profilo etico. Come interpretare e valutare tale richiesta? Le etiche tradizionali dell’Occidente cristiano sono tendenzialmente portate a considerarla oggettivamente come un attentato alla vita donataci da Dio e, soggettivamente, come una pressante richiesta d’aiuto da parte di chi soffre a coloro che gli sono più prossimi, affinché non distolgano lo sguardo dal suo dolore.

Un esame più attento dedicato alla complessità del fenomeno del morire e delle forme che esso oggi assume consente però di cogliere i limiti delle visioni tradizionali e di proporre soluzioni in grado di salvaguardare l’autodeterminazione del soggetto morale. Tutto questo si può attuare senza che vengano infranti i principi dell’etica e della deontologia medica che vietano il ricorso ad atti che siano diretti intenzionalmente a provocare la morte. L’etica medica e la bioetica e, in particolare, l’etica del mantenimento in vita hanno tentato – tenendo conto degli sviluppi della moderna terapia intensiva – di rispondere a quesiti non nuovi nella storia del pensiero morale: <<fino a che punto>> va mantenuta, conservata, protetta la vita? E’ lecito non utilizzare tutti i mezzi disponibili per protrarre l’esistenza umana? L’analisi condotta dal relatore sull’evoluzione delle concezioni relative alla liceità sotto il profilo etico e giuridico delle morti volontarie e della sospensione dei mezzi – fondamentalmente di tipo medico – di mantenimento in vita è pervenuta alla formulazione di alcune provvisorie conclusioni. In primo luogo si è affermato che la demonizzazione del suicidio e la degradazione e la disumanizzazione  dei suicidi sono comportamenti e atteggiamenti che contrastano non solo con la razionalità, con il ponderato calcolo dei costi e dei benefici per la società di tali estreme misure di dissuasione, ma anche con i più elementari sentimenti di compatimento nei confronti di chi decide di congedarsi dalla vita. Oggi ci siamo lasciati alle spalle le misure più crudeli di dissuasione, colpevolizzazione e punizione della morte volontaria, anche se il lascito simbolico di quella violenza talora riemerge, come nel rifiuto delle esequie religiose a Piergiorgio Welby, spentosi nella notte tra il 20 e il 21 dicembre del 2006, dopo che era stata sospesa ogni misura di sostegno vitale nei suoi confronti. Siamo incerti e dubbiosi, invece, sulla definizione dei criteri in base ai quali definire i trattamenti di mantenimento in vita “obbligatori”, “facoltativi” ed “errati”. E’ opportuno che un dibattito ampio si apra proprio su questo terreno, il più rilevante per le ricadute sulla condizione dei pazienti, con la consapevolezza che, se esso verrà modulato senza ricorrere ai facili slogan urlati nelle settimane conclusive della vicenda di Eluana Englaro, potranno essere trovati punti di convergenza tra visioni etiche diverse, sapendo che la soluzioni prospettate conterranno inevitabilmente dei margini di ambiguità. Ciò che va ribadito con forza, alla luce delle pesanti ipoteche sollevate dall’impianto legislativo in discussione nel Parlamento italiano sulle dichiarazioni anticipate di trattamento – è che il corpo continua ad appartenerci fino alla fine della nostra esistenza e, se divenuti “incompetenti”, il rappresentante legale dovrà soltanto svolgere la funzione di chi si rende interprete delle volontà precedentemente espresse dal paziente, senza forzarle nella direzione di ciò che egli ritiene sia preferibile in termini di qualità della vita, di vita degna di essere vissuta. Se il nostro corpo, si è detto, ci appartiene sino alla fine dell’esistenza e non appartiene ai nostri genitori, per quanto amore possano avere nei nostri confronti, esso non appartiene neppure allo stato o a una Chiesa e neppure a chi esercita la professione medica, che non può arrogarsi il diritto di stabilire se una cura o un trattamento medico possono o debbono essere imposti o negati a un paziente senza tener conto delle sue volontà.

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