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Cosa può fare il Medico e chi assiste un malato terminale, quando verrebbe da dire "non c'è più niente da fare"? Ne ha parlato la Dr.a Raffaella Antonione, Medico che opera presso la Clinica Medica dell'Azienda Ospedaliero-Universitaria di Trieste dopo la conviviale del 22 dicembre 2010. Negli ultimi anni, in  quanto medico ospedaliero, mi sono spesso trovata ad affrontare il “fine vita”, il  tramonto dell’esistenza di una persona.

Una delle emozioni più forti che mi hanno pervaso è legata al senso di abbandono che ho percepito: affrontare la diagnosi di malattia inguaribile è inevitabilmente un percorso di solitudine, che coinvolge ogni sfera della vita della persona malata.

Per questo e molti altri motivi, mi sono trovata ad interrogarmi sul ruolo del medico, sul suo atteggiamento alle volte di eccessiva lontananza dal paziente ed “onnipotenza” nei confronti delle malattie. D’altro canto, quanto è giusto spingersi con le indagini e le terapie, quando è meglio affrontare un percorso terapeutico con minore intensità, soprattutto quando è sufficientemente chiaro che ci avviciniamo alla fine della vita?

Con i dubbi nel cuore, sono andata a cercare risposte nei testi di medicina, di bioetica e di filosofia e mi sento di proporre alcune riflessioni in tal senso.

La moderna cultura tende a rifiutare il senso del limite; ed il limite per eccellenza è rappresentato dalla morte. “La morte viene occultata” dice Husserl mentre Pascal ricorda che “Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici.” La morte oggi forse tende ad essere troppo medicalizzata, vi è tendenza alla solitudine del morente e anche la paura verso ogni forma di dolore ha portato ad esasperare una “tendenza analgesica” concettualmente ineccepibile, ma la cui estremizzazione deriva forse anche dal desiderio di controllare la (propria) morte. Camon scrive “Oggi si muore con cuore e cervello innestati ai fili che finiscono in uno strumento registratore; è la morte intubata. E il personale curante è ormai un’équipe di meccanici impegnati a badare che la flebo sgoccioli e che l’ossigeno arrivi”. Elias aggiunge “Mancando un orizzonte simbolico che permetta di parlare della morte, cresce l’imbarazzo di parlare con il morente. Le persone a contatto con i morenti non sono più in grado di confortarli con la manifestazione della loro tenerezza”. Mi sento di condividere pienamente il pensiero di Mattray: «L’accettazione del tempo del morire come un tempo che, per quanto difficile possa essere per il malato e per i suoi familiari, fa veramente parte della storia della persona, non è affatto ancora evidente». La morte è ancora oggi un grande tabù, che causa l’allontanamento dal morente, riempiendo il suo spazio e tempo con tanto fare a scapito dello stare vicino alla persona. Ma alla morte bisogna pensare, perché è esperienza quotidiana nelle nostre corsie e nella nostra pratica clinica. Bisogna forse rispolverare la “bioetica clinica” o quella “al letto del paziente”, che si occupa delle decisioni da prendere di fronte alle incertezze, ai conflitti di valore, ai dilemmi che si devono risolvere vicino e con il malato. Il risultato deve essere un giudizio pratico su quello che si dovrebbe fare per aiutare la persona malata a vivere e a morire in un modo rispettoso della sua dignità. Non deve essere un curare la malattia, un numero, un parametro. Vogliamo avere il coraggio di ricordare che, ad esempio, il cancro non è la persona malata di cancro? Nietzsche stesso ci disse “Orrore è vedere la malattia e non la persona! Vi è necessità di  riprendere a farsi stupire dall’orrore di confondere la malattia con la persona.”. E lo disse tanto tempo fa.

Ho deciso per questi motivi, per questi dubbi di iscrivermi ad un Master di Cure Palliative. La Medicina Palliativa prende nome da pallium (mantello), il cui simbolismo evoca non solo tecniche, ma “atti umani” e suggerisce di “stendere un mantello sulla persona che soffre”, proteggere e coprire con lo scopo di lenire la sofferenza integrale dell’ammalato quando non se ne possono più rimuoverne in modo efficace le cause. La Medicina Palliativa si pone pertanto come insostituibile e fondamentale obbiettivo quello di cercare di superare l’immenso buco nero che esiste tra la fine dei qualsiasi trattamento specialistico e la morte del malato.

L’approccio palliativo è un  fenomeno di origine medievale, ma è solo dal XIX secolo che iniziano a svilupparsi i primi “calvaires”. La fondatrice della Medicina Palliativa moderna fu Cicely Saunders. Nata nel 1918, con il suo lavoro di infermiera in tempo di guerra, quindi di assistente sociale presso il Royal Cancer Hospital, contribuì alla presa in carico globale del paziente oncologico terminale. Come medico infine, dal 1957, concentrò i suoi studi sull'attenuazione del dolore dei malati terminali non solo oncologici, facendosi pioniera della tecnica della somministrazione regolare di antidolorifici. Fondò infine il St. Christopher's Hospice a Londra, che è punto di riferimento mondiale.

Le personalità più illustri che hanno contribuito allo sviluppo in Italia della Medicina Palliativa sono l’ingegner Floriani (con l’omonima Fondazione) ed il Prof. Ventafridda, oncologo ed anestesista, promotore del Progetto Ospedale senza Dolore e del decreto legislativo a favore della più semplice prescrizione degli oppiacei.   

A livello legislativo, le Cure Palliative sono ben codificate dalla legge 38 del 9 marzo 2010 che definisce le Cure Palliative “l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici ed assistenziali rivolti sia alle persone malate sia al loro nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da inarrestabile evoluzione e da prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici”.

Rileggendo la legge, mi sento in obbligo di sottolinearne alcuni aspetti. Le Cure Palliative non sono rivolte solo al malato di cancro. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ed il Ministero della Salute hanno infatti stimato come potenziali malati per le Cure Palliative non solo la metà dei circa 150.000 nuovi malati di tumore/anno ma anche i tre quarti dei 100.000 nuovi malati/anno affetti da patologie croniche come le malattie neurologiche degenerative, le insufficienze d’organo avanzate (cardiache, respiratorie, epatiche) e le malattie cerebro-vascolari (ictus).

Ancora, mi sento in dovere di sottolineare il carattere di cure attive della medicina palliativa, come si evince chiaramente anche dal testo di legge; essa affronta tutti i disagi del malato, anche i più complessi. Proprio perché i sintomi di fine vita sono di difficile controllo, la Medicina Palliativa si caratterizza per l’elevato livello di prestazioni e competenze e deve offrire livelli qualitativi superiori. Cure Palliative quindi non come un aiuto a “far morire”, vicino a sfiorare il pericoloso e scivoloso tema dell’eutanasia, come purtroppo ritengono ancora in molti, ma come rispetto e ricerca della qualità di vita, nel rispetto delle volontà del malato, senza accanimento né abbandono terapeutico. Diventano indispensabili quindi diverse capacità tecniche e professionali, la multidisciplinarietà. L’equipe degli operatori (medico, infermiere, psicologo, assistente sociale, assistente spirituale, volontario, fisioterapista) lavora non intorno al paziente ma con il paziente e la sua famiglia. Il dolore del malato non è solo fisico, ma è sofferenza globale. E  globale deve essere la presa in carico del malato...e deve esserlo in modo continuativo!

Soprattutto nelle Cure Palliative deve esistere una comunicazione aperta che non obbliga a dire tutto (ed in nessuno caso brutalmente) ma che significa soprattutto non evitare il discorso “morte”. La verità, facendo ovviamente attenzione a non uccidere la speranza, è infatti un mezzo per rispettare la persona. Bisogna trovare una comunicazione speciale, fatta anche di silenzi, di sguardi, di comunicazione non verbale, che deve consentire al malato di giungere alla sua verità, quella che può sopportare.

Oggi si parla tanto di assistenza personalizzata, di porre al centro il malato come persona. Sinceramente penso che siamo ancora molto lontani da questo obbiettivo, sia per ostacoli normativi/istituzionali sia per carenze formative piuttosto che per pregiudizi o ignoranza, intesa come non conoscenza. Ma “Ogni viaggio comincia con un singolo passo” ed io, personalmente, voglio essere ottimista. Vorrei concludere con una frase a mio avviso emblematica, che, in poche parole, racchiude tutta la filosofia, la poesia e la peculiarità della Medicina Palliativa:

 Esistono malati inguaribili…ma non esistono malati incurabili”.

 

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