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Il Prefetto di Trieste: Dr. Giovanni Balsamo, http://www.prefettura.it/Sites/index.php?id_sito=1244  profondo conoscitore del mondo delle Autonomie, durante la conviviale del 30 aprile, ha affrontato, con molta acutezza, il tema: “Le Istituzioni Pubbliche ed il Territorio”. Richiamando le origini dello Stato italiano, nato dalla confluenza, sotto una unica bandiera, di Regioni rette da governi diversi e facendo un puntuale richiamo alla Costituzione della Repubblica Italiana, il relatore ha messo in risalto i passaggi che hanno portato all’ordinamento costituzionale attuale, alla continua ricerca di un equilibrio fra il centralismo dello Stato e le Autonomie Locali, materia sempre contraddistinta da notevoli incertezze.
La Costituzione si ispira ad una concezione antiautoritaria dello Stato, con una chiara diffidenza verso un potere esecutivo forte; per questo, ha delegato al capo dello Stato il potere di promulgare le leggi, consentendogli di bloccarle, ha tenuto separato il potere giudiziario e ha previsto l’organizzazione dello stato in regioni, comuni e province.

Tuttavia, l’autonomia delle comunità locali, con il decentramento della amministrazione dello Stato è stata attuata con molta lentezza. Infatti, se alcune Regioni e Province a Statuto speciale furono istituite nell’immediato dopoguerra, il dibattito per l’istituzione delle regioni a Statuto Ordinario si sviluppò durante tutti gli anni ’60. Infatti, forte era la contrapposizione fra i conservatori al governo, che vedevano nell’Istituzione delle Regioni una minaccia all’integrità dello Stato,  ed i riformatori, all’opposizione, che consideravano tale istituzione portatrice di maggiore democrazia e di progresso, in quanto le Regioni erano viste come nuova arena di partecipazione, più vicina ai problemi della popolazione, e capace di sostenere progetti di sviluppo.    
Nel febbraio del 1968, al termine di un serrato scontro parlamentare, fu dunque votata la legge elettorale regionale, e, due anni più tardi, venne approvata la legge sul finanziamento delle Regioni e furono eletti i primi Consigli regionali.
Nel suo complesso, tuttavia, l’insieme della regionalizzazione, attuata tra il 1968 ed il 1975, lasciò ancora una volta insoddisfatti. Infatti, i nuovi amministratori regionali si apprestavano ad essere meri intermediatori tra il centro e la periferia, ad agire come «aggregatori della domanda politico-territoriale rivolta allo Stato» e allo stesso tempo a riprodurre, a livello regionale, alcuni tratti del centralismo, tradizionalmente esercitato dallo Stato verso i Comuni. A partire dal 1972, una serie di decreti attribuì alle Regioni le funzioni. Tra questi, il  «celebre» decreto n. 166 del 1977, fu il più coraggioso. L’oggetto della legislazione regionale si ampliò fino a comprendere la gran parte dei servizi sociali e la gestione del territorio, con un volume di spesa che presto venne a coprire circa un quarto del bilancio nazionale. Tra le altre cose, il decreto del 1977 riservava alle Regioni la funzione di programmare gli interventi nel loro ambito territoriale, compresi quelli dello Stato e degli Enti pubblici. Veniva, così, dato avvio a quel coordinamento al quale la legislazione precedente era stata insensibile, e che, successivamente, avrebbe costituito un principio ispiratore di molti provvedimenti ulteriori. In quest’ottica, fu avviata anche una collaborazione tra amministrazioni regionali, e costituita una «conferenza permanente» tra Stato e regioni. Ma ciò che più sembrò vulnerare l’autonomia regionale fu l’assetto delle finanze. Benché il totale dei finanziamenti, a disposizione delle Regioni, crescesse a ritmo esponenziale, e agli inizi degli anni novanta le regioni spendessero circa un decimo del prodotto interno lordo nazionale, la strutturale dipendenza dal centro era confermata, e anzi divenne più accentuata.
La distinzione, prevista dalla costituzione, tra tributi propri e quote di tributi erariali ha fornito la base per una serie di provvedimenti che via via hanno percentualmente ridotto l’autonomia impositiva, e fatto dipendere, sempre più, le finanze regionali da quote di fondi comuni a destinazione vincolata, massimamente quelli riguardanti il Servizio sanitario nazionale che fu istituito nel 1977.
Occorrerà, perciò, attendere la legge 142/1990, la quale proclama l’autonomia di Comuni e Province, per avere una disciplina specifica sull’ordinamento delle autonomie locali. Agli enti locali viene riconosciuta la possibilità di darsi un proprio ordinamento, conformandolo ai caratteri e alle esigenze della propria comunità. Nella previsione della legge 142, art. 4, comma 1, l’adozione dello statuto è configurata come dovere e non come una mera facoltà. Lo statuto rappresenta l’atto fondamentale dell’Ente e viene individuato come fonte del diritto.
Gli anni ’90 sono caratterizzati dalla grave crisi finanziaria ed economica che colpisce il Paese; nel 1992, l’Italia deve uscire dal serpente monetario e procedere ad una importante svalutazione della Lira oltre che ad una imponente manovra finanziaria. Ma, contemporaneamente, si apre la stagione di tangentopoli e dei trattati di Mastrict. In questo scenario, si accelerarono i processi di revisione del sistema pensionistico, di quello sanitario e si diede ulteriore impulso alla revisione dell’ordinamento degli enti locali. Si procedette alla applicazione delle norme previste per l’elezione diretta dei Sindaci. Ciò aprì una nuova stagione, che portò nuova linfa alla politica; dal mondo dell’imprenditoria e delle professioni, arrivarono nuove personalità, motivate dal fatto che i Sindaci non dovevano più mediare fra i partiti, ma sceglievano essi stessi gli assessori. Nel 1996, durante il I governo Prodi, lo sforzo di portare l’Italia entro l’area Euro spinse a rimodernare l’amministrazione, per creare competizione, per realizzare un federalismo amministrativo, senza, però, modificare la Costituzione. Fu una operazione di trasferimento di risorse: di personale, mezzi finanziari dal centro verso gli enti locali, ma sempre entro i termini amministrativi e mai legislativi, dato che la Costituzione lo impediva. Ma questa manovra amministrativa fallì. Pertanto, nel 2001, si procedette alla modifica del titolo V della Costituzione.
Con la revisione del titolo V della Costituzione, ad opera della legge costituzionale n. 3/2001, per la prima volta, la carta costituzionale riconosce espressamente agli enti locali un’autonomia statutaria. Il novellato art. 114 Cost. stabilisce che “i comuni, le province, le città metropolitane e le regioni sono enti autonomi con propri statuti”. Ma, subito dopo la promulgazione della legge, il governo Prodi cadde ed il centro destra, che dall’opposizione aveva contrastato il varo della legge 3/2001, si trovò a gestire l’applicazione della legge che aveva osteggiato. Questo spiega perchè gli statuti degli enti locali risultarono allora “i grandi assenti della riforma costituzionale”, in quanto nessuna disposizione costituzionale precisava quale sarebbe stato il loro ruolo, privilegiando piuttosto la potestà regolamentare.
La legge 5 giugno 2003, n. 131, cercò di riequilibrare gli squilibri tra aspetti incompiuti della riforma Costituzionale. Infatti, all’art. 4, dopo avere specificato che la potestà normativa degli enti locali consiste nella potestà statutaria e in quella regolamentare, prevede che “lo statuto, in armonia con la Costituzione e con i principi generali in materia di organizzazione pubblica (….), stabilisce i principi di organizzazione e funzionamento dell’Ente”. Questo principio risulta parallelo alla previsione costituzionale dell’art. 123 in materia di potestà statutaria della Regione: tale parallelismo ha il proprio fondamento giuridico nel principio di pari ordinazione di cui all’art. 114 Cost.
Sulla base di queste disposizioni, le Regioni hanno potuto dotarsi di nuovi e moderni statuti, cosa che non ha potuto fare la nostra Regione, in quanto essendo a statuto speciale non è soggetta alle disposizioni previste per quelle a statuto ordinario. Le Regioni a statuto ordinario possono adottare lo statuto senza l’approvazione da parte dello Stato centrale, il quale può impugnare lo statuto, ma in attesa dell’esito dell’intervento di opposizione, lo statuto rimane in vigore. Un ulteriore importante aspetto è che lo statuto è soggetto alla legge nazionale, ma non all’interesse nazionale. In base alle norme attualmente in vigore, le Regioni possono avere competenza legislativa differenziata. Esse possono chiedere di legiferare anche in materie che sono di competenza statale. Pertanto, ci sono regioni che raggiungono gradi di autonomia differenziata rispetto ad altre, in linea con il modello spagnolo. Il potere legislativo è negoziato; se la Regione è capace può ottenere molto; può entrare in rapporto con stati esteri (rappresentanti delle Regioni siedono a Bruxelles). Ma la norma più importante riguarda il federalismo fiscale: la possibilità di imporre tributi. Dal modello vigente negli anni ’70, che prevedeva il trasferimento di risorse finanziarie dallo Stato alle Regioni, si è passati a quello del reperimento delle risorse sul territorio.
Pertanto, mi sento di poter concludere, che le leggi emanate negli ultimi anni, in materia di ordinamento costituzionale, hanno migliorato notevolmente i rapporti tra Istituzioni pubbliche e Territorio

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