Assemblea Distrettuale Rotaract
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Protagonista il cinghiale della conviviale del 2 febbraio scorso, organizzata congiuntamente dal Rotary Club di Muggia e dalla delegazione Muggia - Capodistria dell'Accademia Italiana della Cucina Una serata iniziata nel ricordo di Gilberto Benvenuti rotariano e tra i fondatori della delegazione dell'Accademia della Cucina transfrontaliera. A parlare del cinghiale sono stati Marino Vocci “gastronauta” e vice delegato della delegazione muggesana dell’Accademia e Nicola Bressi, conservatore zoologo preso il Civico Museo di Storia naturale di Trieste. Hanno ricordato la cultura e civiltà della tavola legata a questo "saporitissimo" maiale peloso, che, negli ultimi anni, è molto presente sul Carso e ora è arrivato anche in città . Si è fatto cenno ai diversi piatti che, tradizionalmente, si preparavano con questo intelligente animale e di quelli che sono stati preparati per la serata conviviale . Piatti , ma anche prodotti (salami, prosciutti) che sono parte della storia e della cultura alimentare dei nostri territori. E poi bellissime, simpatiche e …gustose storie sul cinghiale . Il cinghiale (Sus scrofa) è un mammifero ungulato autoctono in gran parte d’Europa, tuttavia dalla fine del XVIII secolo, con i disboscamenti e la diffusione delle armi da fuoco, la specie divenne sempre più rara. Dopo il secondo conflitto mondiale, l’abbandono delle campagne, il benessere e una pratica venatoria che ha permesso il formarsi di vigorose popolazioni ibride, hanno ridato impulso all’incremento della specie. Continua.
Il viaggio a New York City, organizzato dalla Cividin Viaggi per il Rotary Trieste e Trieste Nord, per incontrare uno dei tre Rotary di Manhattan, il Rotary Metro, ha visto anche la partecipazione di due soci del Rotary Muggia, con famiglia: Donatello Cividin e Giulio Bonivento. L'incontro col Rotary newyorkese era previsto in un locale di tendenza vicino al famoso Flatiron ( il primo grattacielo di New York, a pianta triangolare). Serata molto "easy", immersi in un mondo rotariano molto giovane e fuori dal formalismo a noi noto. La serata era dedicata ad un loro appuntamento fisso, per la raccolta di giocattoli dedicata ai bambini di un orfanotrofio gestito da suore, del loro territorio.
L’attività, le criticità e le prospettive di miglioramento dell’efficienza del servizio di pronto soccorso del 118, http://www.ass1.sanita.fvg.it/118/welcome.htm sono state il tema della conversazione tenuta dal Direttore della Struttura, il Dr. Vittorio Antonaglia, dopo la conviviale del 19 gennaio.
La Regione sta facendo sforzi apprezzabili, ha esordito il relatore, per rispondere alle esigenze di pronto intervento sul territorio, in soccorso ai cittadini con problemi di salute. La Regione, in tema di emergenze, sta elaborando un piano, in cui sarebbe, però, importante tener conto del fatto che i bisogni non sono omogenei, ma, bensì, variegati nel territorio. Il bisogno di soccorso che c’è a Trieste non è quello di Tolmezzo o di Palmanova. A Trieste, in media, si registra una chiamata ogni 24 abitanti, all’anno, con il profilo di codici di una certa gravità, quali: il giallo o il rosso. La conferenza Stato-Regioni ha stabilito che il rapporto dovrebbe essere di uno a 30, conteggiando assieme tutti i codici. Tale dato non sorprende se si considera che la nostra è la provincia più vecchia d’Italia e che molte persone molto anziane vivono sole. Pertanto, è necessario trovare un equilibrio fra la necessità di avere una regia unica ed il mantenimento dell’autonomia per le singole realtà socio-sanitarie. Infatti, la regia unica permette di risolvere in maniera uniforme i problemi, dai più semplici come i colori delle uniformi ai più complessi come i protocolli di intervento.
I progetti e gli sforzi che il Sindaco di Muggia il Dr. Nerio Nesladek e la sua amministrazione stanno facendo per il rilancio della cittadina sono state al centro della relazione tenuta dal primo cittadino in occasione della conviviale del 12 gennaio 2011. Quattro anni di attività di Amministratore sono stati spesi in questo sforzo, che trova nella burocrazia gli ostacoli più insidiosi e, a volte, quasi insormontabili, anche se la voglia di fare e le risorse per superarli non mancano.
Il relatore ha esordito guidando i soci in una visita immaginaria lungo il percorso costiero del territorio comunale che amministra, percorso che non è stato difficile delineare per i residenti che lo seguivano con cenni di convinta presenza, sui punti di riferimento, che via via richiamava, soffermandosi sulla descrizione dei dettagli che li identificavano.
Tracciata la mappa, per ogni tratto considerato, il Sindaco ha enfatizzato le potenzialità, ma anche i vincoli che rendono, di fatto, quasi impossibile l’attuazione degli interventi finalizzati alla migliore fruibilità delle aree. I vincoli, per ora insuperabili, possono essere identificati nell’inquinamento di un lungo tratto del litorale, nelle concessioni fatte ad imprenditori, nella presenza di militari nell’ultimo tratto della costa, ai confini con la Slovenia.
L'esperienza ultradecennale di primo cittadino, prima di Muggia e poi di Trieste è stato il tema della conversazione di fine conviviale del 1 dicembre 2010. Ad animarla è stato Roberto Dipiazza, già Socio Fondatore del nostro Club ed attuale Sindaco di Trieste. Questo è il mio 14° anno da sindaco. Proprio il primo dicembre, infatti, ho celebrato questo importante anniversario. Come ricorderete iniziai a Muggia, nell’ormai lontano ’96. Antonione mi chiese: “perché non ti candidi?”. E io, che avevo il supermercato a San Rocco, e un po’ popolare lo ero già, risposi di sì anche se non sapevo neanche che esistevano la Giunta e il Consiglio. Anzi, qualcuno mi accusa ancora oggi di non saperlo. Comunque, diciamo che ero a digiuno di pubblica amministrazione e che quindi mi presentai da assoluto neofita contro un professionista della politica ed ex europarlamentare come Giorgio Rossetti. Inoltre Muggia era un feudo incontrastato dell’allora Pci e si può dire che in confronto Bologna era rosa, non rossa.
Cosa può fare il Medico e chi assiste un malato terminale, quando verrebbe da dire "non c'è più niente da fare"? Ne ha parlato la Dr.a Raffaella Antonione, Medico che opera presso la Clinica Medica dell'Azienda Ospedaliero-Universitaria di Trieste dopo la conviviale del 22 dicembre 2010. Negli ultimi anni, in quanto medico ospedaliero, mi sono spesso trovata ad affrontare il “fine vita”, il tramonto dell’esistenza di una persona.
Una delle emozioni più forti che mi hanno pervaso è legata al senso di abbandono che ho percepito: affrontare la diagnosi di malattia inguaribile è inevitabilmente un percorso di solitudine, che coinvolge ogni sfera della vita della persona malata.
Per questo e molti altri motivi, mi sono trovata ad interrogarmi sul ruolo del medico, sul suo atteggiamento alle volte di eccessiva lontananza dal paziente ed “onnipotenza” nei confronti delle malattie. D’altro canto, quanto è giusto spingersi con le indagini e le terapie, quando è meglio affrontare un percorso terapeutico con minore intensità, soprattutto quando è sufficientemente chiaro che ci avviciniamo alla fine della vita?
Con i dubbi nel cuore, sono andata a cercare risposte nei testi di medicina, di bioetica e di filosofia e mi sento di proporre alcune riflessioni in tal senso.
La moderna cultura tende a rifiutare il senso del limite; ed il limite per eccellenza è rappresentato dalla morte. “La morte viene occultata” dice Husserl mentre Pascal ricorda che “Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici.” La morte oggi forse tende ad essere troppo medicalizzata, vi è tendenza alla solitudine del morente e anche la paura verso ogni forma di dolore ha portato ad esasperare una “tendenza analgesica” concettualmente ineccepibile, ma la cui estremizzazione deriva forse anche dal desiderio di controllare la (propria) morte. Camon scrive “Oggi si muore con cuore e cervello innestati ai fili che finiscono in uno strumento registratore; è la morte intubata. E il personale curante è ormai un’équipe di meccanici impegnati a badare che la flebo sgoccioli e che l’ossigeno arrivi”. Elias aggiunge “Mancando un orizzonte simbolico che permetta di parlare della morte, cresce l’imbarazzo di parlare con il morente. Le persone a contatto con i morenti non sono più in grado di confortarli con la manifestazione della loro tenerezza”. Mi sento di condividere pienamente il pensiero di Mattray: «L’accettazione del tempo del morire come un tempo che, per quanto difficile possa essere per il malato e per i suoi familiari, fa veramente parte della storia della persona, non è affatto ancora evidente». La morte è ancora oggi un grande tabù, che causa l’allontanamento dal morente, riempiendo il suo spazio e tempo con tanto fare a scapito dello stare vicino alla persona. Ma alla morte bisogna pensare, perché è esperienza quotidiana nelle nostre corsie e nella nostra pratica clinica. Bisogna forse rispolverare la “bioetica clinica” o quella “al letto del paziente”, che si occupa delle decisioni da prendere di fronte alle incertezze, ai conflitti di valore, ai dilemmi che si devono risolvere vicino e con il malato. Il risultato deve essere un giudizio pratico su quello che si dovrebbe fare per aiutare la persona malata a vivere e a morire in un modo rispettoso della sua dignità. Non deve essere un curare la malattia, un numero, un parametro. Vogliamo avere il coraggio di ricordare che, ad esempio, il cancro non è la persona malata di cancro? Nietzsche stesso ci disse “Orrore è vedere la malattia e non la persona! Vi è necessità di riprendere a farsi stupire dall’orrore di confondere la malattia con la persona.”. E lo disse tanto tempo fa.
Ho deciso per questi motivi, per questi dubbi di iscrivermi ad un Master di Cure Palliative. La Medicina Palliativa prende nome da pallium (mantello), il cui simbolismo evoca non solo tecniche, ma “atti umani” e suggerisce di “stendere un mantello sulla persona che soffre”, proteggere e coprire con lo scopo di lenire la sofferenza integrale dell’ammalato quando non se ne possono più rimuoverne in modo efficace le cause. La Medicina Palliativa si pone pertanto come insostituibile e fondamentale obbiettivo quello di cercare di superare l’immenso buco nero che esiste tra la fine dei qualsiasi trattamento specialistico e la morte del malato.
L’approccio palliativo è un fenomeno di origine medievale, ma è solo dal XIX secolo che iniziano a svilupparsi i primi “calvaires”. La fondatrice della Medicina Palliativa moderna fu Cicely Saunders. Nata nel 1918, con il suo lavoro di infermiera in tempo di guerra, quindi di assistente sociale presso il Royal Cancer Hospital, contribuì alla presa in carico globale del paziente oncologico terminale. Come medico infine, dal 1957, concentrò i suoi studi sull'attenuazione del dolore dei malati terminali non solo oncologici, facendosi pioniera della tecnica della somministrazione regolare di antidolorifici. Fondò infine il St. Christopher's Hospice a Londra, che è punto di riferimento mondiale.
Le personalità più illustri che hanno contribuito allo sviluppo in Italia della Medicina Palliativa sono l’ingegner Floriani (con l’omonima Fondazione) ed il Prof. Ventafridda, oncologo ed anestesista, promotore del Progetto Ospedale senza Dolore e del decreto legislativo a favore della più semplice prescrizione degli oppiacei.